iEntrance, alla ricerca di nuovi materiali per la transizione energetica

iEntrance: una nuova infrastruttura di ricerca finanziata dal PNRR con oltre 70 milioni di euro, che nasce per mettere a disposizione di imprese, università e start-up strumenti scientifici avanzati e competenze multidisciplinari, con l’obiettivo di accelerare l’innovazione nei settori chiave dell’energia sostenibile, della transizione verde e delle tecnologie digitali. iENTRANCE sta per Infrastructure for ENergy TRAnsition and Circular Economy; è coordinata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche, con il coinvolgimento di INRiM, Sapienza Università di Roma, Politecnico di Torino, Università di Bologna e Università Roma Tre. Una rete distribuita di laboratori che operano in modo integrato e sinergico, diventando una piattaforma di riferimento europea per lo sviluppo di materiali e tecnologie di nuova generazione. «iENTRANCE non è solo un insieme di laboratori all’avanguardia» dice il coordinatore CNR Vittorio Morandi in questa intervista a Driving Change, «ma una comunità aperta e collaborativa in cui ricerca, imprese e istituzioni possono lavorare insieme per trasformare conoscenza in progresso sostenibile, condividendo risultati che appartengono a tutto il Paese e alle nuove generazioni».

Un ricercatore dell’infrastruttura di ricerca iEntrance al lavoro

In quali campi opera?

È una nuova infrastruttura di ricerca che nasce in un ambito molto ampio, quello della scienza e della tecnologia dei materiali: quindi strumentazioni, tecnologie, know-how che sono legati all’utilizzo, all’ottimizzazione, allo sviluppo di nuovi materiali. Un focus scientifico, per quanto largo, un po’ più specifico rispetto a tutte le tematiche della transizione energetica. Quello della scienza dei materiali è un tema comunque molto ampio: lo sfruttamento, lo sviluppo, l’integrazione in dispositivi, la sostituzione di materiali, i materiali critici rari, sono tutti aspetti che hanno innumerevoli applicazioni un po’ in tutti i settori. Abbiamo scelto di focalizzarci principalmente sul tema della transizione energetica, considerandola una delle tematiche cardine, anche se sicuramente non l’unica, per i prossimi anni, dalla generazione di energia allo stoccaggio fino al recupero.

Come si declina questa attività?

Da una parte c’è il tema del monitoraggio ambientale, che è legato al consumo di combustibili fossili, all’inquinamento, alla mobilità; e dall’altro quello dell’ottimizzazione e del miglioramento delle prestazioni della dispositivistica, delle tecnologie che usiamo per affrontare i temi principali legati alla transizione energetica. Ma c’è anche il fronte delle materie, perché ci sono una serie di tecnologie che sono fortemente legate ai materiali che a loro volta hanno delle criticità, che siano ambientali in termini di inquinamento, o di approvvigionamento. Promuovere la transizione energetica significa anche cercare di individuare tecnologie e soluzioni che permettano di abbassare i costi e l’impatto ambientale, di implementare tecnologie verdi anche nella produzione dispositivistica. È dunque necessario guardare i processi a tutto tondo, l’impronta ecologica della produzione dei materiali e dei dispositivi, i tempi di vita: quindi il life cycle assessment, quel che comporta nel ciclo di vita di un prodotto l’impatto ambientale e la durata, i costi integrati non solo legati al singolo dispositivo ma i costi ambientali, di gestione, di sistema. È una tematica estremamente ampia: l’infrastruttura nasce con l’obiettivo di potenziare alcune filiere specifiche che permettono di affrontarla.

Da dove nasce il progetto?

La sua base è legata all’iniziativa europea centrata sulle micro nanotecnologie, che si chiama Euronanolab – tant’è che il nome completo è Infrastruttura per la transizione energetica e economia circolare legata a EuroNanoLab (ENL). Si tratta di una rete europea molto ampia, perché comprende 46 nodi, facilities nanotecnologiche in 16 paesi europei ed è coordinata da noi italiani, tutta centrata sulle micro e nanotecnologie applicate in ambiti diversi. Partendo da qui abbiamo costruito un consorzio capace di affrontare la tematica anche dagli altri punti di vista, non solo quello dell’integrazione dei materiali in dispositivi, quindi la fabbricazione di sensoristica innovativa, dispositivi innovativi, ma anche tutta la filiera legata alla caratterizzazione dei materiali che ha la capacità anche di produrre e generare materiali nuovi. Abbiamo cercato di completare il quadro e quindi di sviluppare tanto tematiche più verticali su alcune filiere, come l’attività legata alle batterie, allo stoccaggio dell’energia, alla generazione, quanto strumenti trasversali, come lo sviluppo delle tecniche di caratterizzazione. Possono essere spinte a risoluzioni molto avanzate, per caratterizzare i dispositivi nelle loro prestazioni, e studiare i materiali in condizioni operative, quello che si chiamano le metodologie in situ.

Un laboratorio dell’infrastruttura di ricerca iEntrance

E per quanto riguarda i dispositivi?

A proposito della possibilità di prendere i materiali e trasformarli in dispositivi, c’è la possibilità di aprirsi verso quelle che si chiamano le attività anche ad alto TRL (Technology Readiness Level), la classificazione europea della maturità tecnologica, più avanzate, più vicine alla possibilità di essere ingegnerizzate, sviluppate e portate sul mercato. La parte legata alle microfabbricazioni è quella tecnologicamente più matura e quindi più vicina a essere portata verso il mercato. L’idea è stata quella di costruire un consorzio che permettesse di coprire questa catena del valore, che avesse come obiettivo primario quello di rivolgersi alle comunità di ricerca, perché le infrastrutture di ricerca nascono con questa missione. Sta finendo la fase di investimento e di startup, il lavoro che stiamo facendo adesso è sulla capacità dell’infrastruttura di cominciare a proporsi verso il mercato e gli utenti come interlocutore, come accompagnatore di innovazione verso il mondo imprenditoriale. Questo è un altro filone della parte infrastrutturale che esiste anche a livello europeo, è quello che chiamano infrastrutture tecnologiche. In ambito PNRR il tentativo è stato quello di agire attraverso le infrastrutture tecnologiche per l’innovazione, uno strumento piuttosto complicato dal punto di vista manageriale e gestionale: strutture come la nostra possono provare ad agire anche in quella direzione.

Quali sono le caratteristiche dell’infrastruttura?

Il lavoro di questi primi due anni abbondanti è stato quello di costruire non solo investimenti, ma soprattutto un sistema integrato. La differenza sostanziale tra dei laboratori di altissimo livello e un’infrastruttura è legata principalmente a due elementi: la capacità di questo insieme di laboratori distribuiti di lavorare in maniera omogenea e coordinata, il che comporta un lavoro di armonizzazione, con la gestione dei dati e degli accessi condivisa; e l’avere come priorità la declinazione più nobile possibile del termine servizio, nel senso di mettersi a disposizione delle comunità, con la logica di cercare di massimizzare gli investimenti, di fare massa critica, non solo di strumenti e di investimenti, ma anche di capitale umano e di know-how. Perché l’altra parte fondamentale sono le persone: si possono avere strumenti e laboratori meravigliosi, ma senza capitale umano gli strumenti da soli non fanno nulla. Avere personale altamente qualificato e specializzato, in grado di rispondere con competenze di alto livello alle problematiche e alle tematiche, è dunque fondamentale. Questo anche per evitare i finanziamenti a pioggia, e laboratori di singoli gruppi che non sono disponibili agli altri; e quindi provare a fare sistema.

Ci fa qualche esempio di concreta applicazione?

La prima call per raccogliere proposte di progetti da parte della comunità scientifica, che poi verranno realizzati, è stata aperta quest’autunno. I progetti sono in corso adesso. Ci sono le attività legate alla possibilità di generare energia attraverso il fotovoltaico, con materiali nuovi, o comunque più recenti, come quelli che vengono chiamati perovskiti, che potrebbero andare a sostituire il silicio all’interno delle celle fotovoltaiche, con il vantaggio di avere costi inferiori, la possibilità di essere processati, in alcuni casi, con tecnologie verdi e quindi ridurre l’impatto di inquinamento della produzione e dello smaltimento dei materiali.

E per quanto riguarda le batterie?

Ci sono due grandi temi, su stiamo lavorando. Da una parte il recupero dei materiali esausti, quindi le tecnologie che servono per prendere le batterie esauste, riuscire a recuperare dall’interno, analizzando con il dettaglio che è necessario, la qualità, le condizioni dei materiali, e riuscire a scomporre la batteria nei suoi componenti e recuperare le materie prime che sono necessarie. Dall’altra un filone di sostituzione del litio con materiali diversi, e quindi la possibilità di investire su materiali che siano meno rari, meno inquinanti, come per esempio le batterie al sodio.

Che altro?

C’è il tema del recupero della CO2. Una delle attività è quella di andare a sviluppare tecnologie e quindi materiali collegati che siano in grado di catturare CO2, che sappiamo di essere uno dei maggiori inquinanti, ma anche attraverso la CO2 di generare ulteriori combustibili, e quindi avere un approccio che sia di economia circolare. Dalla CO2 si può generare metano, e anche altri combustibili. È stata completata inoltre la transizione verso prodotti che sono sul mercato lungo tutta la filiera dell’idrogeno, soprattutto nella sensoristica. Oggi c’è un tema legato alla qualità dei gas naturali, e alla possibilità di estrarre idrogeno col grado di purezza necessaria, sia dai gas naturali che da altre fonti. Abbiamo attività per lo sviluppo di sensoristica dedicata con la sensibilità necessaria per andare a monitorare in maniera puntuale la qualità dei gas che vengono utilizzati nei processi. Tutta questa filiera della sensoristica che guarda la parte ambientale, quindi il monitoraggio, sia a livello urbano che a livello industriale, degli inquinanti, che ha permesso anche di sviluppare tecnologie nella direzione della produzione dell’idrogeno è stata sviluppata attraverso tecnologie di micro e nanofabricazione. Sono i cosiddetti MEMS, che sta per micro-electromechanical system, cioè materiali micro lavorati che compongono il cuore di quei sistemi di sensoristica attraverso canali di centinaia di metri micro lavorati di silicio all’interno del quale il materiale entra, viene separato e viene analizzato in maniera puntuale nelle diverse componenti, per monitorare gli inquinanti o la qualità del gas.

C’è in Italia una collaborazione tra ricerca pubblica e Pmi per la loro crescita tecnologica?

L’interazione del sistema di ricerca con le Pmi è molto eterogenea a livello nazionale. Ci sono realtà nelle quali è molto radicata anche, spesso e volentieri, perché ci sono politiche regionali e locali che investono in quella direzione. Ci sono altre realtà in cui è molto meno presente. La Sicilia, per esempio, è molto polarizzata attorno a strutture come St Micro Electronics per la parte dispositivistica ed Enel Green Power per quanto riguarda quella energetica, quindi il tessuto delle Pmi è molto più polarizzato attraverso questi poli di grande dimensione. La regione Emilia Romagna è invece una Regione di piccole e medie imprese, quindi con grandi investimenti da parte regionale; l’esempio che citavo prima sullo sviluppo dei sistemi di sensoristica, è con un’impresa di piccole e medie dimensioni, della Regione Emilia Romagna, quindi c’è uno storico di collaborazioni strutturato.

Cosa impedisce a questa collaborazione tra ricerca e Pmi di crescere?

È un tema soprattutto culturale credo, si tratta di investire su competenze dedicate che permettano di fare la parte di traslazione del linguaggio delle tematiche della ricerca verso la parte produttiva. L’interazione con la parte industriale è oggi una delle sfide vere anche a livello europeo, tant’è che la tematica delle infrastrutture tecnologiche guarda proprio in quella direzione, alla capacità di interagire con le imprese.

Come si inserisce il vostro progetto all’interno di questa attività?

Cercando la capacità di investire su competenze specifiche, soprattutto lato del personale, che permettano in qualche modo di dialogare direttamente con le imprese. La vera questione è avere all’interno delle strutture di ricerca persone che siano dedicate a fare questo lavoro di interfaccia. Delle persone che siano dedicate a costruire il dialogo, da una parte con i ricercatori per cercare di capire, attraverso i risultati della ricerca, gli elementi che possono essere più facilmente traslati e portati verso l’impresa, dall’altro siano capaci di dialogare con gli imprenditori. Credo che per poter portare effettivamente l’infrastruttura a dialogare in maniera strutturale con le imprese, a parte alcuni casi che possono essere casi particolarmente fortunati, in cui questo modello del proporre un problema con già un’idea di soluzione in nuce funziona anche per le imprese, serve probabilmente un modello che ribalti questa prospettiva, cioè che permetta di interagire con le imprese, guidandole dal problema alla soluzione. Un modello che sia in grado, attraverso una gestione che è fatta di competenze delle persone, ma anche di una gestione avanzata, quindi con strumenti innovativi di gestione del linguaggio, di intelligenza artificiale, gestione avanzata dei dati, da quello che è un bagaglio straordinario di know-how che è legato a tutte le competenze e a tutti i dati che abbiamo a disposizione, aiuti le imprese a individuare le soluzioni che possono essere meglio adatte alle problematiche che ci sono. Questo è un lavoro che è tutto da fare a oggi, tant’è che oggi i modelli realmente efficaci di interfaccia e interazione sono ancora molto in evoluzione. Anche perché c’è un altro problema da superare.

Quale?

Quello di comprendere quanto una innovazione tecnologica, per quanto straordinaria, abbia un potenziale di applicazione concreta nel mondo dell’impresa. A volte ci sono soluzioni che sono straordinarie dal punto di vista prestazionale, ma poi cadono nell’insieme del tempo di vita del prodotto, o sui temi di costo: tutti termini che tipicamente non appartengono, in termini di ragionamento, a una visione che è propria di chi fa ricerca, almeno quella più fondamentale. Si deve essere capaci di andare a vedere qual è l’impatto di medio termine, qual è l’avanzamento scientifico, l’avanzamento prestazionale, di materiali, di dispositivi specifici. Quello in cui tipicamente i nuovi materiali cadono è la capacità dello scale up, i costi sulle grandi produzioni.

Ci fa un esempio?

Io ho lavorato per molti anni in tutto l’ambito di quello che erano i materiali bidimensionali, se ne è parlato tantissimo, sul grafene. Lo scarto è sempre stato quello, passare dalle prestazioni straordinarie di un materiale innovativo che sembrava poter sostituire quasi qualunque altro materiale, perché individualmente aveva proprietà superiori a qualunque altro materiale nelle diverse categorie, all’integrazione tecnologica. Ci sono filiere nelle quali il grafene o materiali analoghi bidimensionali stanno trovando applicazioni e contesto, ma non sono tutti, perché in alcuni campi i costi associati alla produzione su larga scala o alla ristrutturazione completa di una filiera tecnologica sono troppo alti. Credo che questo sia il tema culturale vero su cui è indispensabile innestare delle competenze aggiuntive. Al CNR in parte è stato fatto, ci sono delle strutture pensate per questo tipo di lavoro, organismi di ricerca con una natura pubblico-privata che operano in questa zona di interfaccia. Hanno un’importante componente accademica ma anche soci privati, con l’obiettivo di ragionare dell’applicabilità di questo tipo di soluzioni.

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